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Racconto autobiografico di Haruki Murakami e come abbandonare un gatto. Sfaccettature rappresentanti


Murakami da anni ci regala libri e storie e universi e personaggi, sempre diversi ma comunque sempre a noi vicini. Quello di cui non aveva mai scritto era se stesso, la sua famiglia, la sua vita privata. Mai fino a oggi, fino ad Abbandonare un gatto, l’ultimo libro pubblicato lo scorso anno in Giappone e pochi giorni fa in Italia, grazie a Einaudi.

Un racconto, in realtà, breve, che però riesce a condensare in poche pagine, in poche righe, in parole semplici, pillole di vita, umana, universale, e di storia, del mondo, ma soprattutto del Giappone.

L’inizio entra subito nel vivo della vicenda, senza preamboli, con un tono confidenziale: Murakami parla subito del padre come se ne stesse ripercorrendo la memoria tra sé e sé, e il paragrafo dopo ci porta già nel pieno di un piccolo, per l’epoca, ma sempre grande, dramma: quello di un padre e di un figlio che partono insieme in bicicletta per abbandonare un gatto sulla spiaggia. Già dalla prima pagina si capisce che le emozioni da provare lungo il racconto saranno tante, e non verremo delusi. Senza intenti didascali, Murakami ci fa riflettere sulla condizione dell’uomo: quella di suo papà, in primis, che però trasfigura quella di ogni bambino che lotta per diventare uomo, ma anche quella di ogni uomo che cerca di diventare un padre, ma anche quella di ogni giapponese del secolo scorso, chiamato a fare i conti con il mondo e con la storia.

Attraverso gli occhi del padre, infatti, ma anche del nonno, degli zii e di se stesso, Murakami ripercorre tradizioni, simboli e avvenimenti cardine della cultura e della società nipponica. Si parla di templi buddisti e del modo in cui i figli cadetti delle grandi famiglie di agricoltori ne diventano priori, di haiku, di servizio di leva, di tradizioni famigliari e della guerra. Delle guerre, anzi, che per tutto il secolo hanno scosso il Giappone - con la Cina, la Birmania, gli Stati Uniti - portando i suoi giovani a morire all’estero o a compiere atti di crudeltà che li avrebbero segnati per la vita, portando i giovani tedeschi in Giappone, forse per l’ultimo sorriso prima di morire in Russia, portando le bombe sui civili giapponesi. E dopo aver visto l’uomo agire in questi grandi scenari internazionali, si vede ciò che questi gli hanno lasciato dentro: tornare a casa, alla vita da civile, al tentativo di dimenticare, o almeno nascondere, ciò da cui invece non si potrà più staccare. Ecco che allora torna la dimensione privata, famigliare, dell’uomo che si fa padre e mantiene vivo il ciclo naturale inevitabile tra genitori e figli: “In altre parole, quel pesante fardello che mio padre si portava dietro − oggi si direbbe il trauma – lo ha poi trasmesso in parte a me, suo figlio. È così che funzionano le relazioni umane, è così che funziona la storia”.

Ma, come ricorda più volte Murakami, se tutta quella catena di disgrazie non fosse accaduta, lui e i suoi libri oggi non sarebbero qui. Ecco allora un altro insegnamento di questo racconto: saper riconoscere ciò che di positivo nasce da ogni situazione, e metterlo a frutto. Con parole delicate, Murakami ci regala un altro specchio in cui guardarci, riconoscerci e anche perdonarci. Per gli sbagli che compiamo nell’essere genitori. O figli.

Parole delicate tradotte con sapienza da Antonietta Pastore, e accompagnate altrettanto sapientemente dalle delicate illustrazioni di Emiliano Ponzi, splendide nei colori e nelle linee (riproduciamo in questo articolo una tavola su gentile concessione della casa editrice Einaudi).

Ancora una volta, i lettori italiani non sono stati delusi da Murakami, che anche con questo suo libro è riuscito a far loro conoscere un altro po’ di Giappone e di se stessi.

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